20/12/2017. E’ Natale: favole e storie di cavalli per bambini // La bimba che amava i cavalli // Sirio cavallo parlante // Storia del cavallo incantato – fiaba araba // La giostra di Cesenatico: aveva in tutto sei cavalli di legno…

 
La bimba che amava i cavalli
 
La bimba che amava i cavalli

C’era una volta una bimba che amava i cavalli. Un giorno si recò in visita da un amico del nonno che aveva una bella stalla, con tanti animali. “Vieni, le disse, ti faccio vedere un puledrino appena nato!” La bimba era emozionatissima. Quanto avrebbe voluto avere un puledrino tutto per sè! Quello, poi, era bellissimo, con il mantello bianco e grigio e una meravigliosa quanto strana striscia dorata che univa la criniera alla coda, attraversando tutto il dorso! Avrebbe anche avuto lo spazio per tenerlo: viveva, infatti, in una casa circondata da un grande prato, ma i suoi genitori non volevano saperne di animali!

Nei giorni seguenti si recò spesso alla stalla con il nonno e poté vedere il puledrino crescere e diventare sempre più bello e forte. Un giorno, però, l’amico del nonno le disse che, l’indomani, il puledro sarebbe stato trasferito in un’altra fattoria. Era stato acquistato da un signore che viveva non molto lontano da lì. La bimba che amava i cavalli tanto disse e tanto fece che convinse il nonno ad accompagnarla anche nella nuova casa di Beato (così aveva chiamato il puledrino). Il nonno era un po’ titubante, in realtà. In fondo non conoscevano quel signore… e se non li avesse fatti entrare? Se li avesse mandati via? Purtoppo, però, ormai aveva promesso, così si fece coraggio e guidò fino alla nuova fattoria. Si trovarono in un posto piuttosto strano, non assomigliava alle altre stalle che avevano visitato, ne’ alle scuderie e nemmeno agli allevamenti che avevano visto in tv… Sembrava, piuttosto, un disegno appena uscito da un libro di fiabe!

Gli animali vagavano tra i recinti sgangherati ed erano uno più strano dell’altro! Mucche con le macchie nere e lo sfondo lilla, maiali che sembravano parlare animatamente fra loro, addirittura un’oca con un grazioso cappellino sulla testa! Il nonno si tolse gli occhiali e se li pulì almeno 3 volte mentre si guardava intorno, attonito. Poi… eccolo! “Beato!“, gridò la piccola, correndo verso il suo beniamino. Lui riconobbe l’amica che tante volte l’aveva accarezzato e le corse incontro felice. “Buongiorno, bambina!“, la salutò un signore molto ben vestito e dall’aria gentile. “Vi conoscete, voi due?” chiese indicando Beato.

Il nonno intervenne, un po’ imbarazzato, raccontando com’erano giunti fin lì. Il gentile signore non si meravigliò affatto, anzi, disse loro che era abituato a queste cose, infatti la sua era una fattoria magica, all’interno della quale ospitava gli animali delle favole, della fantasia, dei racconti, che, ogni tanto, per errore, o forse perchè così doveva essere, nascevano nel mondo reale. Lui li comprava, prima che i loro proprietari intuissero la loro diversità e li portava lì.

Certe volte“, continuò con un sorriso, alludendo a Beato, “è facile capire perchè un animale magico nasce qui. È fin troppo evidente che voi vi appartenete!
Purtroppo mamma e papà non mi permettono di avere animali…
Nemmeno questi?“, sorrise l’uomo e, con un gesto della mano, trasformò Beato in un pelouche. “Non temere“, continuò, “tornerà normale ogni volta che vorrai. Basterà che tu gli dica nell’orecchio: Beato, trasformati! Ma attenta a non farti vedere. Ah, un’altra cosa… Beato è ancora un cucciolo, non gli sono ancora spuntate… le ali!

La bimba non credeva alle sue orecchie! Abbracciò forte l’uomo e, stringendo il suo pelouche tornò a casa. Nel tempo che seguì ogni minuto libero lo passò librandosi nel cielo con il suo grande amico… e qualche volta convinse anche il nonno ad andare con loro!

 di Arianna (6 anni)

 

Sirio cavallo parlante

in home page  Giovanetto con cavallo di Pablo Picasso. Sopra il Cavallino di Vincent Van Gogh
 
Sopra il Cavallino di Vincent Van Gogh

CI MANCAVA solo questa!”
Sospirando chiuse il cofano della macchina e si guardò intorno sconfortato. 
La piccola strada di campagna era completamente deserta, ma cosa ci si poteva aspettare la sera del 24 dicembre?
Frequentava quei posti di anni e sapeva benissimo che il primo nucleo abitato distava chilometri: troppi per percorrerli a piedi.
Ma non era per questo che amava tanto quei luoghi?
La sua possibilità di regressione all’infanzia, l’angolo in cui purificarsi dalle spire asfissianti della tecnologia contemporanea.
Sorrise di se stesso.
Già, la tecnologia. Però, accidenti, un telefonino cellulare sarebbe stato molto utile in quel frangente!
“Non importa” sussurrò una vocina interiore, quella che compariva agile e misteriosa nei momenti di difficoltà “quando non ti vedranno arrivare qualcuno verrà sicuramente a cercarti.”
“Sembra facile” brontolò l’altra sua parte, quella razionale “come se tu fossi uno affidabile! Penseranno tutti che all’ultimo momento, come al solito, hai cambiato idea.”
Tanto per fare qualcosa aprì il portabagagli.
Almeno non rischiava di morire di fame.
“Ma di freddo si.” Tuonò il vocione interiore.
“Mica vero” ribattè sommessa la vocina “c’è alcol per un reggimento di soldati, ti scalderai con quello.”
“ E finirai sbronzo e assiderato”
Era sempre la solita storia. Due modi di essere in eterno conflitto a contendersi il dominio sulle sue azioni…e lui lì ad osservarli guardandosi bene dal saper operare una scelta.
Gettò uno sguardo distratto sul sedile posteriore. Da una grande busta di plastica qualcosa di rosso gli fece l’occhiolino. Se ne era quasi dimenticato. L’aveva comprato il giorno prima bighellonando per la città affollata: era il suo regalo di Natale per Sirio.
“Una scelta sconsiderata” aveva stigmatizzato la sua parte razionale “quando mai quel cavallo avrebbe avuto bisogno di una coperta e,soprattutto, quando mai se la sarebbe lasciata mettere, con il caratterino che si ritrovava”
Bè, adesso poteva tornare utile.
La spiegò con una certa cautela. Benché nuova evocò, come per magia, quell’atmosfera di serenità che solo la vicinanza con i cavalli riusciva a trasmettergli. Se l’appoggiò sulle spalle e subito si sentì riconsolato. Ma presto la consapevolezza del buio ebbe il sopravvento.
Doveva fare qualcosa.
Si immaginò inerpicarsi lungo la stradella buia imbacuccato dentro una coperta rossa e…gli venne da ridere. Male che va mi scambieranno per Babbo Natale, peccato non abbia le renne.
“Potrebbe andare bene un cavallo?” chiese alle sue spalle una voce appena venata d’ironia.
Si girò cautamente “E tu cosa ci fai qui?”
“Mi pare evidente sono venuto a prenderti” Vi fu una breve sospensione di silenzio “Non guardarmi con quella faccia stralunata. Non sono un’allucinazione. Prova ad allungare una mano. Come vedi puoi toccarmi”
“Ma Sirio, siamo seri i cavalli non parlano”
“Tranne che la sera di Natale. Ti sei scordato proprio tutto della nostra terra?” 
“No, me lo ricordo ancora il rituale di notti come questa. Doppia razione per tutti gli animali della fattoria. Era la tradizione…ma non ricordo più perché lo facevamo”
“ Perché i vecchi sapevano bene che allo scoccare della mezzanotte spettava a  noi animali decidere del vostro futuro. Potevamo gettare la nemesi augurandovi la buona o la cattiva sorte”
“Era quindi un modo per rabbonirvi. Ma dimmi, funzionava d’avvero?”
Senti il muso tiepido del cavallo sfiorargli la spalla
“Dovresti saperlo che siamo dotati di un’ottima memoria”
“E quindi…”
Istintivamente si appoggiò allo sportello semichiuso. Forse il freddo mi sta dando alla testa, pensò, ma dopotutto cosa aveva da perdere?
“ E quindi… non sempre andava come voi speravate, anche se noi animali siamo spesso anche troppo generosi. Ma adesso andiamo, finiremo tutti e due congelati, se non ti dai una mossa. Salimi in groppa che ti riporto a casa. Parleremo lungo la strada”%%newpage%%
“Sei sempre il solito…spiegami come faccio a guidarti senza redini né sella”
“ E chi ha detto che tu debba guidarmi. Mi pare che fino a qui sono stato capace di arrivarci da solo. Perché non provi a fidarti della mia disponibilità nei tuoi confronti. Se avessi avuto voglia di disarcionarti mi sarei risparmiato la fatica di arrivare fino a qui.”
“ Va bene. Dimmelo tu cosa devo fare.”
“Semplice: salta su, reggiti forte alla criniera e tieniti ben stretta la coperta.” 
“Non ti verrà mica in mente di metterti a galoppare?”
“Lo vedi che sei malfidato. E poi dici che sono io ad essere imprevedibile. Ma come fa un cavallo a fare bene il suo mestiere se non ha la fiducia e la comprensione del proprio cavaliere?”
“Che c’entra la comprensione…” Si interruppe di colpo sentendoli innervarsi. Con un gesto automatico lo carezzò sul collo
“Che hai?”
“Cosa vuoi che abbia. Possibile che dopo tanti anni insieme ancora tu non sia riuscito a capire che odio il buio, le situazioni indefinite, le cose che non conosco. Come puoi pensare che su una strada ghiacciata, in una notte nera come questa abbia voglia di mettermi a galoppare”
“Insomma sono…”
“Molto umano” lo interruppe secco
“E tu pazzo come un…”
“Cavallo, non dici sempre così?” Lo sentì accelerare leggermente l’andatura e subito fu contagiato da un’euforia sottile. Il ritmo del passo, come sempre, ricomponeva la sua unità dispersa. Ebbe voglia di chiudere gli occhi e quasi senza accorgersene le sue braccia si distesero a circondare il collo del cavallo.
“Mi piace sentirti parlare”
“E’ un tuo vecchio sogno di bambino”
“Come fai a saperlo?”
“Sono molte le cose che so di te. Tra noi due a fare lo sforzo di comprensione maggiore sono stato io…nonostante le tue attente letture!”
“Va bene: dimmi dov’è che sbaglio”
“Nel non fidarti del tuo istinto, o forse dovrei dire delle tue emozioni. Nel pretendere che io cada nella trappola della tua falsa sicurezza. Nel pensare che non sappia percepire quando l’angoscia ti si appiccica addosso. Ti illudi ancora di potermi ingannare e non capisci che io invece conosco la tua anima.”
“La mia anima…Ma se non so neppure più di possederne una!”
“Certo che lo sai. Quando siamo insieme a volte sei quasi per toccarla, ma poi ti spaventi e l’incantesimo si spezza”
“Sei tu la mia anima?”
“Io come tutto ciò che ami” Per un attimo vi fu solo il rumore soffocato degli zoccoli sulla neve “ e come tutto ciò da cui spesso fuggi impaurito” sospirò l’animale.
“Non ti capisco”
Capirai, ma dovrai sforzarti di non dimenticare. Questa notte non è stata un sogno, e seppure in silenzio se tu lo vorrai sarò capace di guidarti ancora”. Si interruppe “Ed ora andiamo, non è rimasto più molto tempo”
Si sentì portare via da una vertigine sottile. Non seppe per quanto. Fu il calore del fuoco a risvegliarlo ed il rumore confuso di voci sullo sfondo.
“Si sta riprendendo” Mani, volti, braccia gli si strinsero intorno.
“Che diavolo è successo?” domandò sconcertato
“Questo dovresti spiegarcelo tu. Ti abbiamo trovato a pochi metri da casa. Svenuto. Se non era per i cani che hanno dato l’allarme saresti ancora lì, probabilmente morto assiderato”.
“La macchina” con una mano si sfiorò la fronte “ si è fermata. Poi…” si arrestò confuso “Ma Sirio dov’è?”
“Dove vuoi che sia, nel suo box. Sono passato prima a sistemare il fieno. A proposito ragazzi, chi di voi è riuscito a mettergli quella coperta rossa?”

 

Storia del cavallo incantato – fiaba araba

Durante la festa del Novruz (È il primo dell’anno e della primavera; in quest’occasione in tutta la Persia si celebra il capodanno, è scitto anche Newroz, Naw-Rúz, No Rouz, Norooz), dopo che i più abili e i più ingegnosi del paese ebbero offerto al re e a tutta la corte il divertimento dei loro spettacoli, un Indiano si presentò al cospetto del sovrano spingendo un cavallo, riccamente bardato e imitato con tanta arte che, vedendolo, lo si sarebbe in un primo momento scambiato per vero. L’Indiano si inchinò davanti al trono e, rialzandosi, disse:
- Sire, sebbene io mi presenti per ultimo a Vostra Maestà, posso tuttavia assicurarvi che non avete visto nulla di così meraviglioso né di così sorprendente come il cavallo che vi sto mostrando.
- In questo animale – gli rispose il re – non vedo altro che l’ingegnosità dell’artigiano nel dargli il più possibile un aspetto naturale.
- Maestà, – riprese l’Indiano – non voglio che consideriate il mio cavallo una meraviglia per il suo aspetto esteriore, ma per l’uso che se ne può fare. Quando lo monto, in qualsiasi lontano punto della terra io desideri essere trasportato attraverso l’aria, posso farlo in brevissimo tempo.
Il re di Persia, il quale si interessava di tutto ciò che aveva qualcosa di straordinario, disse all’Indiano che solo la dimostrazione di quanto aveva affermato l’avrebbe convinto.
L’Indiano balzò sul cavallo con grande destrezza e, dopo essersi ben assicurato alla sella, domandò al re di Persia dove doveva andare.
- Vedi quel monte laggiù? – e il re gli indicò un’alta montagna a circa tre leghe da Shiraz. – Desidero che tu vada là; la distanza non è molta, ma poiché non è possibile seguirti con lo sguardo, devi portarmi come prova un ramo di una palma che si trova in quel luogo.
L’Indiano girò un cavicchio sporgente alla base del collo del cavallo, che immediatamente s’innalzò da terra. Come un fulmine sollevò il cavaliere così in alto che in pochi momenti anche quelli che avevano la vista più acuta non lo videro più.
Non era passato neanche un quarto d’ora, quando si scorse l’Indiano che tornava sul cavallo. L’uomo scese a terra e, avvicinandosi al trono, si prosternò e posò il ramo di palma ai piedi del re.
Il sovrano, che aveva assistito con ammirazione pari allo stupore all’inaudito spettacolo, provò un grande desiderio di possedere quell’oggetto eccezionale; e, risoluto ad accordare all’Indiano qualsiasi somma chiedesse, lo considerava già suo.
- A giudicare il tuo cavallo dall’aspetto esteriore, disse all’Indiano – non capivo perché dovesse valere tanto, ma tu mi hai fatto ricredere; e, per dimostrarti quanto lo valuto, se è in vendita, sono pronto a comprarlo.
- Sire, – rispose l’Indiano – ero certo che voi avreste apprezzato il mio cavallo e che avreste subito desiderato di entrarne in possesso. Permettetemi però di dirvi che io non l’ho comprato; l’ho ottenuto da colui che l’ha inventato e costruito soltanto concedendogli in moglie la mia unica figlia; e nello stesso tempo egli pretese da me che io non lo vendessi, ma che lo cedessi in cambio di qualsiasi cosa giudicassi opportuna.
L’Indiano voleva proseguire ma, alla parola cambio, il re di Persia l’interruppe:
- Sono pronto, – replicò – ad accordarti lo scambio che vorrai chiedermi. Il mio regno è grande, è pieno di città potenti, ricche e popolose. Lascio a tua scelta quella che vorrai.
Ma l’Indiano aveva portato le sue mire a qualcosa di molto più alto. Perciò rispose al re:
- Vi sono infinitamente grato dell’offerta, tuttavia posso farvi entrare in possesso del mio cavallo soltanto ricevendo in sposa la principessa vostra figlia.
I cortigiani che circondavano il re di Persia non poterono impedirsi di scoppiare a ridere sonoramente, ma il principe Firuz Shah, figlio maggiore del re e futuro erede al trono, s’indignò profondamente. Il re la pensò in modo ben diverso e credette di poter sacrificare la principessa anche se restò un po’ titubante.
Firuz Shah, vedendo che suo padre esitava nel rispondere, temette ch’egli accettasse. Cominciò dunque a parlare e, prevenendolo, disse:
- Sire, perdonatemi, ma la vostra esitazione di fronte all’insolente richiesta di questo ciarlatano mi costringe a ricordarvi non soltanto ciò che dovete a voi stesso, ma anche al vostro sangue e alla grande nobiltà dei vostri antenati.
- Figlio mio, – rispose il re di Persia – voi non considerate che l’Indiano può, se lo respingo, andare a fare la stessa proposta altrove, io sarei ridotto alla disperazione se un altro monarca potesse privarmi della gloria di possedere questo cavallo. Non voglio dire, però, che acconsento a quanto mi chiede. Forse egli stesso non si rende perfettamente conto dell’enormità della sua pretesa; e, a parte la principessa mia figlia, farò qualsiasi altro patto egli vorrà. Ma, prima di giungere alla conclusione dell’accordo, mi farebbe molto piacere se voi provaste personalmente il cavallo. Sono sicuro ch’egli ve lo permetterà.
L’Indiano, lungi dall’opporsi al desiderio del re, ne fu contento; avvicinandosi al cavallo, precedette il principe per aiutarlo a montare in sella e avvertirlo di come doveva manovrarlo.
Il principe Firuz Shah, con mirabile destrezza, montò da solo sul cavallo e, senza aspettare alcun consiglio dell’Indiano, girò il cavicchio come aveva visto fare a lui. Lo straordinario animale lo sollevò con la velocità di una freccia e, in pochi istanti, il re e tutta la corte lo persero di vista. Allora l’Indiano, inquieto per quanto era accaduto, si rivolse al re:
- Vostra Maestà stessa ha visto che il principe mi ha impedito di dargli le istruzioni necessarie per manovrare il cavallo. Ma egli ignora in quale modo può farlo tornare indietro. Perciò vi chiedo di non considerarmi responsabile di ciò che potrà capitargli.
Questo discorso rattristò molto il re di Persia, il quale comprese il pericolo in cui si trovava suo figlio. L’Indiano volle rassicurarlo:
- Sire, – aggiunse – c’è motivo di sperare che il principe si accorgerà di un altro cavicchio che serve per scendere verso terra.
- Comunque sia, – replicò il re di Persia – poiché non posso fidarmi della tua assicurazione, la tua testa risponderà della vita di mio figlio se, entro tre mesi, non lo vedrò tornare sano e salvo o se non saprò con certezza che egli è vivo.
Ordinò di prenderlo e di rinchiuderlo in un’angusta prigione. Poi si ritirò nel suo palazzo, grandemente addolorato che la festa del Novruz si fosse conclusa in maniera così triste per lui e per la sua corte.
Nel frattempo il principe Firuz Shah, sollevato in aria con tanta rapidità, in meno di un’ora si vide così in alto da non distinguere più niente sulla terra. Allora pensò di ritornare da dove era partito. Girò e rigirò parecchie volte il cavicchio, ma inutilmente. Soltanto allora riconobbe il grave errore commesso non facendosi dare dall’Indiano le informazioni necessarie.
Ma non si perse d’animo: si raccolse in se stesso e, esaminando attentamente la testa e il collo del cavallo, scoprì un altro cavicchio più piccolo accanto all’orecchio destro del magico animale e lo girò. Subito il cavallo si diresse verso terra e finalmente si fermò.

 

Era mezzanotte passata quando Firuz Shah s’accorse che si trovava sul tetto a terrazza di un magnifico palazzo, dove vide una porta socchiusa. Il principe l’aprì senza far rumore e trovò una scala; scese con grande precauzione e giunse in un salone illuminato. Si fermò, tendendo l’orecchio e non udì altro rumore se non quello di persone che dormivano profondamente. Avanzò un po’ nella sala e, alla luce di una lanterna, vide che quelli che dormivano erano soldati negri, ciascuno con la sciabola accanto a sé. Capì che si trattava della guardia dell’appartamento di una regina o di una principessa.
Firuz Shah avanzò in punta di piedi, aprì una portiera di stoffa di seta molto leggera e si trovò in una camera regale dove c’erano parecchi giacigli, di cui uno soltanto era sul sofà e gli altri a terra. In questi ultimi dormivano alcune ancelle e nel primo dormiva la principessa.
Si avvicinò al letto e vide una fanciulla di una bellezza così eccezionale che ne fu incantato. In quel momento la principessa aprì gli occhi e, sommamente stupita nel vedersi davanti un uomo tanto elegante e di bell’aspetto, si turbò, senza mostrare tuttavia nessun segno di terrore o di spavento.
Il principe abbassò la testa fin quasi al tappeto e, rialzandola, disse:
- Nobile principessa, sono il figlio del re di Persia. Per una straordinaria avventura mi trovo ai vostri piedi e vi chiedo aiuto e protezione.
La principessa, alla quale Firuz Shah si era così fortunatamente rivolto, era la figlia primogenita del re del Bengala, il quale le aveva fatto costruire a breve distanza dalla capitale un palazzo dove ella veniva spesso. Dopo averlo ascoltato con molta benevolenza, ella gli rispose:
- Principe, rassicuratevi: l’ospitalità e la cortesia che mi chiedete vi sono state già accordate non soltanto nel mio palazzo, ma anche in tutto il regno.
Il principe di Persia voleva ringraziarla, ma ella non gli diede il tempo di parlare:
- È mio forte desiderio sapere come siete arrivato qui dalla capitale della Persia e per quale incantesimo siete riuscito a penetrare in questo palazzo. Tuttavia preferisco rimandare la mia curiosità a domani mattina e lasciarvi riposare.
A un suo cenno, le ancelle condussero il giovane in una bellissima camera.
Il giorno dopo, la principessa, appena alzata, si ornò con i diamanti più splendenti, indossò un abito della più ricca stoffa di tutte le Indie e mandò a dire al principe che sarebbe andata da lui.
Firuz Shah si era perfettamente rimesso dal suo faticoso viaggio e aveva appena finito di vestirsi, quando ella arrivò. Dopo i reciproci complimenti la principessa disse: – Principe, sono impaziente di ascoltare l’avventura che vi ha condotto fin qui.
Per accontentarla il giovane cominciò a narrare i fatti fin dalla festa solenne del Novruz; le parlò del cavallo incantato, della folle richiesta dell’Indiano, di come egli si fosse trovato in viaggio, dell’arrivo alla reggia fino all’incontro con lei.
- Non c’è bisogno di dirvi il resto – soggiunse il principe. – Mi resta soltanto da ringraziarvi per la vostra bontà e la vostra generosità.
Mostrandosi lieta delle sue parole, la principessa allora propose:
- Principe, poiché il caso vi ha condotto fino alla capitale di questo regno, sono sicura che vorrete vederla e salutare il re mio padre affinché egli vi renda gli onori dovuti. – Principessa, – rispose Firuz Shah – accetterei volentieri la cortese offerta che mi fate se non pensassi all’inquietudine del re mio padre per la mia scomparsa. Io lo conosco e sono sicuro che egli è in preda a un mortale dolore per cui non posso dispensarmi di andare subito a rassicurarlo. Fatto ciò, principessa, – proseguì il principe di Persia – se mi giudicate degno di aspirare alla felicità di diventare vostro sposo, non avrò difficoltà a ottenere da mio padre il permesso di acconsentire al nostro matrimonio e di ritornare qui.
La principessa capì che era inutile insistere per indurlo a presentarsi al re del Bengala e a fare qualcosa contro il proprio dovere, perciò continuò:
- Non avevo l’intenzione di appanni a una ragione così legittima come quella che adducete. Ma non posso approvare la vostra decisione di partire così presto. Poiché siete arrivato nel regno del Bengala, promettetemi di restarvi il tempo sufficiente per riportarne notizie più precise alla corte di Persia.
Firuz Shah non poté negarle quanto ella gli chiedeva; accondiscese e la principessa non pensò ad altro che a rendergli piacevole il soggiorno.
Per parecchi giorni vi furono soltanto feste, balli, concerti, passeggiate nei giardini e cacce nel parco del palazzo.
Per due interi mesi, il principe si abbandonò completamente ai desideri della principessa del Bengala, ma allo scadere di questo termine le disse che doveva assolutamente tornare nel suo regno. Poi aggiunse:
- Principessa, poiché sono convinto che la mia vita non può essere felice senza di voi, vi chiedo la grazia di venire con me.
La principessa non rispose ma il suo silenzio e i suoi occhi bassi gli fecero capire che era d’accordo ad accompagnarlo in Persia.
La mattina dopo, un po’ prima dell’alba, quando tutto il palazzo era ancora immerso in un sonno profondo, la principessa si recò sulla terrazza insieme col principe e montarono in sella. Il giovane girò il cavicchio e il cavallo si sollevò in aria con la solita rapidità. Dopo circa due ore e mezzo i due giovani scorsero la capitale della Persia.
Il principe non volle scendere nella grande piazza da dove era partito, né nel palazzo del sultano, ma in una dimora di campagna, poco distante dalla città. Condusse la principessa nel più bell’appartamento e le disse che, per farle rendere i dovuti onori, sarebbe andato ad avvertire suo padre del loro arrivo e sarebbe subito tornato. Nel frattempo dette ordine al portinaio di non farle mancare niente.
Il principe attraversò le vie della città acclamato dal popolo felice di rivederlo.
Giunto alla reggia, il sultano suo padre lo abbracciò versando lacrime di gioia e di tenerezza. Poi gli domandò che cosa fosse avvenuto del cavallo dell’Indiano.
Il giovane raccontò a suo padre le avventure vissute e in particolare l’incontro con la principessa del Bengala, il motivo che lo aveva costretto a restare da lei più del dovuto e la promessa che aveva fatto di sposarla.
- E, Sire – concluse il principe – sicuro del vostro consenso, ho condotto con me la principessa che ora aspetta in uno dei nostri palazzi di campagna.
A queste parole, egli si prosternò davanti a suo padre il quale, abbracciandolo una seconda volta, disse:
- Figlio mio, non soltanto acconsento al vostro matrimonio, ma voglio anche andare personalmente dalla principessa per dimostrarle la mia gratitudine, portarla nel mio palazzo e celebrare oggi stesso le vostre nozze.
Il sultano ordinò di far uscire l’Indiano di prigione e di condurlo da lui. Quando l’uomo fu alla sua presenza gli disse:
- Ti avevo fatto arrestare affinché la tua vita rispondesse di quella del principe mio figlio. Ringrazia Iddio che l’ho ritrovato. Va, riprendi il tuo cavallo e non comparire mai più davanti a me.
Quando fu lontano, l’Indiano, il quale aveva saputo che il principe Firuz Shah era tornato con una principessa sul cavallo incantato, si recò in tutta fretta al palazzo di campagna. Rivolgendosi al portinaio disse che era stato mandato a prendere la principessa per condurla in groppa al cavallo alla reggia del sultano. Il portinaio non ebbe difficoltà a prestar fede alle sue parole e anche la fanciulla subito acconsentì a seguirlo, convinta che si trattasse di un desiderio del principe.
L’Indiano, felicissimo per la facilità incontrata nella esecuzione del suo malvagio piano, montò sul cavallo, prese in sella la principessa, girò il cavicchio e subito furono sollevati nelle più alte sfere dell’aria.
In quello stesso momento il sultano di Persia, seguito dai suoi cortigiani, si recava al palazzo di campagna. Intanto l’Indiano passava ostentatamente sulla città con la sua preda, per sfidare il sultano e il principe e per vendicarsi dell’ingiusto trattamento che, a suo avviso, gli era stato inflitto.
Quando il sovrano e suo figlio ebbero scorto e riconosciuto l’Indiano, che rapiva sotto i loro occhi la principessa, rimasero immobili per lo stupore.
Firuz Shah si chiedeva come fare per liberare la fanciulla e punire l’Indiano come meritava. Si recò per prima cosa nel palazzo di campagna dove il portinaio, accortosi dell’errore commesso, si gettò ai suoi piedi chiedendogli perdono.
Il principe si mostrò comprensivo nei suoi riguardi e, invitandolo ad alzarsi, ordinò di andargli a cercare un abito da derviscio.
Poco lontano c’era un convento di dervisci, il cui superiore era amico del portinaio che perciò non ebbe difficoltà a ottenere quanto chiedeva. Portò al principe un abbigliamento completo ed egli lo indossò. Così travestito uscì dal palazzo di campagna e si mise in cammino.
Intanto l’Indiano era arrivato in un bosco vicino alla capitale del regno di Kashmir. Scese a terra e si allontanò lasciando la principessa accanto a un ruscello.
Approfittando dell’occasione la giovane levò alte grida, attirando l’attenzione di un gruppo di cavalieri. Questi accorsero circondando lei e l’Indiano, che nel frattempo era tornato. Uno dei cavalieri era il sultano del regno di Kashmir che, tornando dalla caccia col suo seguito, passava da quelle parti. Si rivolse all’Indiano e gli chiese chi fosse e che pretendesse dalla dama lì presente. L’uomo rispose con impudenza che era sua moglie, ma la principessa lo smentì:
- Signore, – disse – chiunque voi siate abbiate compassione di una principessa e non prestate fede a un impostore: Dio mi guardi dall’essere moglie di un uomo così vile e spregevole! È un abominevole mago, che oggi mi ha rapito al principe di Persia, al quale ero destinata in sposa e che mi ha portato qui su questo cavallo incantato.
La principessa del Bengala non ebbe bisogno di dire altro perché la sua bellezza, la sua aria aristocratica e le sue lacrime parlavano per lei. Il sultano di Kashmir, indignato dall’insolenza dell’Indiano, ordinò di tagliargli la testa e l’ordine fu eseguito immediatamente.
Ma la principessa, liberata dalle mani dell’Indiano, si trovò in una nuova situazione non meno dolorosa.
Il sultano la condusse al suo palazzo, le assegnò uno splendido appartamento, le diede un gran numero di ancelle e dei soldati per difenderla. L’accompagnò egli stesso e nel salutarla le disse:
- Principessa, sono certo che avete bisogno di riposo.
Domani sarete in condizione migliori così potrete raccontarmi le circostanze della strana avventura che vi è capitata.
La principessa del Bengala era in preda a una gioia inesprimibile e s’illuse che il sultano l’avrebbe riaccompagnata dal principe di Persia.
Ma il re di Kashmir aveva stabilito di sposarla il giorno dopo e aveva fatto annunziare i festeggiamenti sin dall’alba al suono dei tamburi, delle trombe e di altri strumenti, che risuonavano per tutta la città. La giovane donna, svegliata da questi gioiosi concerti, ne attribuì la causa a tutt’altro motivo.
Quando il sultano di Kashmir si recò da lei e le comunicò che le fanfare suonavano per rendere più solenne le loro nozze, ella cadde svenuta. Le ancelle accorsero in suo aiuto e il sultano stesso si adoperò per farla rinvenire; ma ella restò a lungo in quello stato prima di riprendere i sensi. Infine si riebbe e allora, piuttosto che venir meno alla fedeltà che aveva promesso al principe Firuz Shah, decise di fingere che le avesse dato di volta il cervello. Subito cominciò a dire delle stravaganze; si alzò anche come per gettarsi sul re, che fu molto stupito e addolorato per questo spiacevole contrattempo.
La principessa del Bengala continuò non soltanto il giorno dopo, ma anche in quelli seguenti a dare segni di una grave alienazione mentale, finché il sultano di Kashmir fu costretto a riunire i medici della sua corte e chiedere loro dei rimedi per guarirla.
La donna aveva previsto quanto stava accadendo e temette che, se si fosse lasciata avvicinare dai medici, anche il meno esperto si sarebbe accorto della sua finzione. Via via ch’essi entravano, simulava degli attacchi di collera così violenti che neanche uno di loro ebbe il coraggio di avvicinarla.
Quando il sultano di Kashmir vide che i medici della sua corte non avevano fatto niente per la guarigione della principessa, chiamò quelli della capitale, la cui scienza, abilità ed esperienza non ebbero però miglior successo. Poi fece chiamare i medici delle altre città del regno. La principessa non fece loro miglior accoglienza che ai primi e tutto ciò che essi le prescrissero non ebbe nessun effetto. Infine il sultano mandò dei corrieri negli stati, nei regni e nelle corti dei principi vicini con messaggi da distribuire ai medici più celebri, promettendo una magnifica ricompensa a colui che avrebbe guarito la malata.
Nel frattempo, il principe Firuz Shah, travestito da derviscio, aveva percorso molte città, prestando attenzione alle notizie che circolavano in ogni luogo. Arrivò infine nella capitale del Kashmir, dove si parlava molto di una principessa del Bengala alla quale aveva dato di volta il cervello lo stesso giorno in cui il sultano aveva stabilito di celebrare le sue nozze con lei.
Il principe di Persia, informatosi di tutti i particolari, si fece fare un abito da medico; e, con quest’abito e la lunga barba che si era lasciato crescere durante il viaggio, si fece notare per le strade della città.
Si recò poi al palazzo del sultano, dichiarando di poter certamente guarire la principessa. Il sultano lo fece salire in un soppalco dal quale poteva vedere la donna senza essere scorto.
Firuz Shah vide le sua bella principessa intenta a cantare con le lacrime agli occhi una canzone nella quale deplorava l’infelice destino che l’aveva separata dall’uomo che amava.
Il principe, commosso per il triste stato in cui la vide, non ebbe bisogno d’altro per capire che la sua malattia era una finzione.
Dopo aver assicurato il sultano che la principessa non era incurabile gli disse che, per riuscire a guarirla, doveva parlarle da solo. Il sultano fece aprire la porta della camera della principessa e il principe Firuz Shah entrò. Appena la donna lo vide apparire, scambiandolo per un medico, si alzò come una furia minacciandolo e caricandolo di ingiurie. Ciò non impedì al giovane di avvicinarsi a lei; e quando le fu abbastanza vicino, le disse in tono basso e con aria rispettosa:
- Principessa, io non sono un medico. Guardatemi, ve ne supplico! Sono il principe di Persia che viene a liberarvi.
Riconoscendo in un tempo la voce e i lineamenti del volto dell’amato, nonostante la lunga barba, la giovane donna si calmò e subito sul suo viso apparve la gioia. Firuz Shah poté così raccontarle la disperazione provata quando l’Indiano l’aveva rapita e come fosse riuscito a trovarla.
Quand’egli smise di parlare, la principessa gli narrò brevemente le sue disavventure.
Il principe di Persia le chiese poi se sapeva che fine avesse fatto il cavallo incantato dopo la morte dell’Indiano – Ignoro – rispose lei – quale ordine il sultano può aver dato a questo proposito; ma dopo quanto gli ho detto del cavallo, immagino che non lo abbia trascurato.
Firuz Shah, sicuro che il sultano di Kashmir avesse fatto custodire accuratamente il cavallo, comunicò alla principessa la sua intenzione di servirsene per ricondurla in Persia. Poi la lasciò.
Il sultano di Kashmir provò una grande gioia quando il principe lo ebbe informato di ciò che aveva fatto sin dalla prima visita per portare verso la guarigione la principessa del Bengala.
Il giovane, approfittando della fiducia che il re mostrava nei suoi confronti, gli domandò come mai la principessa si trovasse così lontana dal suo paese, al fine di far cadere il discorso sul cavallo incantato e di sapere che cosa ne avesse fatto.
Il sultano di Kashmir non ne fece un mistero e gli disse di aver fatto portare il cavallo nel suo tesoro, come una grande rarità, sebbene ignorasse in ché modo potersene servire.
- Sire, – rispose il finto medico – queste notizie mi forniscono il mezzo per guarire completamente la principessa. Poiché è stata portata su questo cavallo incantato, ella è sotto l’effetto di un incantesimo che può essere dissipato soltanto con certi profumi che conosco. Se volete avere questo piacere e offrire uno dei più sorprendenti spettacoli al vostro popolo, domani dovrete far portare il cavallo in mezzo alla piazza e affidarvi a me per il resto. Prometto di mostrare ai vostri occhi e a quelli di tutti, in pochissimi istanti, la principessa del Bengala così sana di mente e di corpo come non è mai stata in vita sua.
Il sultano di Kashmir acconsentì alle sue richieste e il giorno dopo il cavallo incantato fu preso dal tesoro per suo ordine e portato nella piazza. Presto si sparse la voce in tutta la città che si stava preparando qualche cosa di straordinario e tutto il popolo accorse.
Il sultano di Kashmir apparve; e, quando ebbe preso posto su un palco circondato dalla sua corte, giunse anche la principessa del Bengala. Ella si avvicinò al cavallo incantato e, aiutata dalle sue ancelle, montò in sella. Appena si fu sistemata con i piedi nelle staffe e la briglia in mano, il finto medico fece disporre intorno al cavallo parecchi pentolini pieni di fuoco; e, girandovi intorno, gettò in ciascuna di essa un profumo composto di parecchi aromi tra i più squisiti. Poi, raccolto in se stesso, con gli occhi bassi e le mani sul petto, girò tre volte intorno al cavallo, pronunziando strane parole; e, quando dai pentolini esalò un fumo così denso da nascondere alla vista di tutti sia la principessa che il cavallo, Firuz Shah si gettò anch’egli in sella, portò la mano sul cavicchio e lo girò. Nel momento in cui il cavallo li sollevava entrambi in aria, a voce alta disse:
- Sultano di Kashmir, se vorrai sposare qualche principessa che implora la tua protezione, impara prima a chiedere il suo consenso.
Fu così che il principe Firuz Shah ritrovò e liberò la principessa del Bengala. Quello stesso giorno la ricondusse nella capitale del suo regno dove il re suo padre ordinò che fossero subito celebrate le nozze con la cerimonia più fastosa che la Persia ricordi.

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La giostra di Cesenatico

di Gianni Rodari

Tratto da “Favole al telefono”. – Edizione Einaudi.Tutte le sere un viaggiatore di commercio telefonava a sua figlia e le raccontava una storia…

Una volta a Cesenatico, in riva al mare, capitò una giostra. Aveva in tutto sei cavalli di legno e sei jeep rosse, un po’ stinte, per i bambini di gusti più moderni. L’ometto che la spingeva a forza di braccia era piccolo, magro, scuro, e aveva la faccia di uno che mangia un giorno sì e due no. Insomma, non era certo una gran giostra, ma ai bambini doveva parere fatta di cioccolato, perchè le stavano sempre intorno in ammirazione e facevano capricci per salirvi.
“Cos’avrà questa giostra, il miele?” si dicevano le mamme. E proponevano ai bambini: “Andiamo a vedere i delfini nel canale, andiamo a sederci in quel caffè coi divanetti a dondolo”.
Niente: i bambini volevano la giostra.
Una sera un vecchio signore, dopo aver messo il nipote in una jeep, salì lui pure sulla giostra e montò in sella a un cavalluccio di legno. Ci stava scomodo, perchè aveva le gambe lunghe e i piedi gli toccavano terra, rideva. Ma appena l’ometto cominciò a far girare la giostra, che meraviglia: il vecchio signore si trovò in un attimo all’altezza del grattacielo di Cesenatico, e il suo cavalluccio galoppava nell’aria, puntando dritto il muso verso le nuvole. Guardò giù e vide tutta la Romagna, e poi tutta l’Italia, e poi la terra intera che si allontanava sotto gli zocccoli del cavalluccio e ben presto fu anche lei una piccola giostra azzurra che girava, girava, mostrando uno dopo l’altro i continenti e gli oceani, disegnati come su una carta geografica.
“Dove andremo?”, si domanda il vecchio signore. In quel momento gli passò davanti il nipotino, al volante della vecchia jeep rossa un po’ stinta, trasformata in un veicolo spaziale. E dietro a lui, in fila, tutti gli altri bambini, tranquilli e sicuri sulla loro orbita come tanti satelliti aritificiali.
L’omino della giostra chissà dov’era, ormai; però si sentiva ancora il disco che suonava un brutto cha-cha-cha: ogni giro di giostra durava un disco intero.
“Allora il trucco c’era”, si disse il vecchio signore.
“Quell’ometto dev’essere uno stregone”.
E pensò anche: “Se nel tempo di un disco faremo un giro intero della terra, batteremo il record di Gagarin”.
Ora la carovana spaziale sorvola l’Oceano Pacifico con tutte le sue isolette, l’Australia coi canguri che spiccavano salti, il Polo Sud, dove milioni di pinguini stavano con naso per aria. Ma non ci fu il tempo di contarli: al loro posto già gli indiani d’America facevano segnali col fumo, ed ecco i grattacieli di Nuova York, ed ecco un solo grattacielo, ed era quello di Cesenatico. Il disco era finito. Il vecchio signore si guardò intorno, stupito: era di nuovo sulla vecchia, pacifica giostra in riva all’Adriatico, l’ometto scuro e magro la stava frenando dolcemente, senza scosse.
Il vecchio signore scese traballando.
“Senta, lei”, disse all’ometto. Ma quello non aveva tempo di dargli retta, altri bambini avevano occupato i cavalli e le jeep, la giostra ripartiva per un altro giro del mondo.
“Dica”, ripeté il vecchio signore, un po’ stizzito.
L’ometto non lo guardò nemmeno. Spingeva la giostra, si vedevano passare in tondo le facce allegre dei bambini che cercavano quelle dei loro genitori, ferme in cerchio, tutte con un sorriso d’incoraggiamento sulle labbra.
Uno stregone quell’ometto da due soldi? Una giostra magica quella buffa macchina traballante al suono di un brutto cha-cha-cha.
“Via”, concluse il vecchio, “è meglio che non ne parli a nessuno. Forse riderebbero alle mie spalle e mi direbbero: Non sa che alla sua età è pericoloso andare in giostra, perchè vengono le vertigini?”.

 fonte : Edizioni Einaudi